il fante Salvatore Vacca si spense a 23 anni, nel 1999, per una leucemia dovuta agli effetti dell’uranio impoverito. Per i giudici di Cassazione è certo «il collegamento causale tra l’attività espletata in missione dal militare e l’evoluzione della patologia»
Salvatore Vacca, fante del 151° reggimento della Brigata Sassari, morì a 23 anni, nel settembre 1999, per una leucemia dovuta agli effetti dell’uranio impoverito. Lo stabilisce una sentenza di Cassazione che ha preso in esame la drammatica storia del caporalmaggiore dell’esercito che si ammalò a seguito di una patologia tumorale frutto dell’esposizione, alla fine degli anni ’90, alle particelle di uranio impoverito durante una missione in Bosnia. Legittima, di conseguenza, la richiesta di risarcimento presentata dai familiari – la «mamma coraggio» del soldato, Giuseppina, e la sorella – del militare. A dare notizia della sentenza di Cassazione — ordinanza numero 24180, sezione terza civile, depositata giovedì — è il portale «Diritto e Giustizia», edito da Giuffrè Francis Lefebvre.
«Pilota di mezzi cingolati»
Riflettori puntati, in particolare, sul periodo trascorso in Bosnia dal caporalmaggiore: tra novembre 1998 e aprile 1999, il sottufficiale ha «prestato servizio quale pilota di mezzi cingolati». E durante quei mesi, secondo i suoi familiari, «ha inalato particelle tossiche prodotte dall’esplosione di proiettili composti da uranio impoverito». L’ipotesi avanzata dai genitori e dalla sorella del militare – con annessa richiesta di risarcimento nei confronti del Ministero della Difesa – viene ritenuta fondata dai giudici della Capitale, che, prima in Tribunale e poi in Corte d’appello, ritengono responsabile il ministero. A quest’ultimo viene addebitato, in sostanza, di avere omesso «l’adozione di misure di prevenzione, precauzione e sicurezza idonee a ridurre al minimo i rischi per la salute» dei componenti dell’esercito. E proprio questa omissione è considerata come fattore decisivo della «patologia tumorale» che ha poi provocato la morte del caporalmaggiore.
È certo «il collegamento causale»
Il quadro tracciato in Appello è ora condiviso e confermato dalla Cassazione (leggi il commento dell’editorialista di Diritto e Giustizia). Anche per i giudici della Suprema Corte, difatti, non è possibile mettere in discussione «la correlazione tra l’esposizione all’uranio impoverito e la patologia tumorale». A questo proposito, viene ulteriormente chiarito che, alla luce delle relazioni predisposte da alcune Commissioni mediche, è certo «il collegamento causale tra l’attività espletata in missione dal militare e l’evoluzione della patologia, rappresentante la causa primaria del decesso», e, allo stesso tempo, è indiscutibile «il nesso causale tra il comportamento colposo dell’autorità militare (mancata informazione adeguata del personale militare in servizio, mancata pianificazione e valutazione degli elementi di rischio, mancata predisposizione e consegna delle misure di protezione individuale atte almeno a ridurre il rischio) e la patologia» che ha ucciso il caporalmaggiore. Di conseguenza, vi sono tutti i presupposti per ritenere legittima la «richiesta di risarcimento» — fissata in un milione e 800 mila euro dalla precedente sentenza d’Appello — avanzata dai familiari del militare nei confronti del Ministero della Difesa. Sulla cifra, però, sarà necessario un ulteriore passaggio in Corte d’appello, dove bisognerà valutare «le provvidenze erogate» alla madre e al padre del caporalmaggiore.
Oltre 340 morti
Vacca era uno dei soldati italiani morti per malattie contratte dopo la partecipazione a missioni militari nei Balcani e in Albania. Oltre 340 secondo i puntuali numeri forniti dall’Osservatorio Militare presieduto da Domenico Leggiero, ex pilota dell’Aeronautica. Oltre 40 le sentenze di risarcimento. Tra queste almeno 13 — compresa quella di Vacca — passate in giudicato. Tra gli altri Valery Melis, morto nel 2004 dopo una lunga malattia manifestatasi al ritorno dalla missione in Kosovo.
Leggi l’articolo di Alessandro Fulloni sul CORRIERE DELLA SERA