La voce di chi per anni è stato esposto a gravi rischi per la salute, ignaro. Gli album con i volti di chi non c’è più. I “morti di serie b” e le accuse sulle responsabilità. Poi lo studio preoccupante di Ausl e la posizione di Fs. Dossier ricostruisce la storia dei lavoratori ex Ogr
“Da noi non muore nessuno di vecchiaia”. Le parole di Salvatore Fais, lamieraio nel quinto reparto delle Officine Grandi Riparazioni di Bologna dal 1986 al 2015, ricoprendo anche il ruolo di delegato sindacale, sono un vero e proprio pugno nello stomaco. Così come il suo archivio personale, nel quale sono riportati meticolosamente i nomi e le foto degli oltre 370 colleghi deceduti, nel corso degli anni, a causa di tumori riconducibili all’esposizione all’amianto. Nell’area da quasi 120mila metri quadrati di via Casarini di proprietà delle Ferrovie dello Stato (32mila coperti, oltre la metà senza pareti divisorie), fino al 1992, quando è entrata in vigore della prima legge in materia, che lo mise al bando, l’amianto veniva utilizzato per coibentare e rimettere a nuovo le carrozze che arrivavano a Bologna per la manutenzione. Per anni nessuno ha mai sospettato degli effetti sulla salute di questo materiale. E anche quando la comunità scientifica ha posto le basi per le attuali conoscenze a riguardo, attaccano l’ex sindacalista e diversi suoi ex colleghi, chi poteva evitare di far correre rischi gravissimi agli uomini e alle donne delle ex Ogr (attive per anni a Bologna ma anche in altre città del Paese) non avrebbe fatto nulla per salvaguardare la salute dei propri lavoratori. “La potremmo definire una strage di Stato, voluta e senza che nessuno si sia mai assunto le proprie responsabilità – dice ancora Fais -. La nostra è una rabbia difficile da descrivere, chi sapeva ci ha lasciato morire”.
“Giocavamo con l’amianto come fosse neve”
All’interno delle officine di via Casarini, progressivamente dismesse, fino alla chiusura definitiva nel 2018, erano presenti numerose professioni. “C’era di tutto: falegnami, elettricisti, verniciatori, vetrai, tappezzieri. Era una città nella città, una vera e propria università della manutenzione: facevamo persino smalti e saponi per le Ferrovie. E si stava benissimo, eravamo come una grande famiglia. Nessuno lavorava guardando l’orologio per tornarsene a casa”.
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