Morto di amianto, l’Autorità portuale è responsabile

L’ente è un “datore di lavoro di fatto” e rientra nella sua sfera la salute degli addetti, anche quando non risultano essere suoi diretti dipendenti. Lo ha stabilito la sentenza del tribunale di Trieste n. 214,

emessa il 9 agosto scorso, che ha condannato l’Autorità portuale di mare Adriatico orientale-Porto di Trieste al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, in favore degli eredi di un lavoratore, deceduto nel 2011 a causa di una prolungata esposizione all’amianto. Per Giancarlo Moro, consulente legale di Inca, che ha patrocinato il ricorso degli eredi, si tratta di “una sentenza importante, che si può estendere ai maggiori porti italiani”, dove spesso la manodopera viene reclutata attraverso cooperative di lavoratori portuali (o compagnie).

Un sistema che, di fatto, fa perdere le tracce degli imprenditori sui quali ricade l’onere di assicurare la massima protezione dei lavoratori nello svolgimento delle mansioni, secondo il dettato del decreto legislativo 81/08, rendendo difficile l’individuazione delle responsabilità quando subentrano infortuni o malattie professionali.

Il caso esaminato dai giudici triestini è emblematico: il lavoratore deceduto per una “neoplasia polmonare disseminata”, addetto al carico e scarico, stoccaggio e movimentazione delle merci in arrivo ed in partenza presso il Porto di Trieste, ha lavorato dal 1960 fino al pensionamento come dipendente dell’Ente Magazzini Generali di Trieste, trasformatosi in Ente Autonomo e, infine, divenuto Autorità di sistema portuale per il mare Adriatico orientale, per effetto della legge istitutiva n. 84/94.

Secondo la sentenza, queste “trasformazioni” non fanno venir meno l’obbligo della tutela in capo alle attuali autorità portuali poiché, spiega il dispositivo, “subentrano alle organizzazioni portuali nella proprietà e nel possesso dei beni in precedenza non trasferiti e in tutti i rapporti in corso (…) senza limiti concernenti le funzioni svolte precedentemente e quelle mantenute dall’Autorità portuale”.

In materia di sicurezza e prevenzione, il giudice di Trieste distingue il ruolo delle compagnie, la cui “unica attività” è quella di fornire la manodopera necessaria per lo svolgimento delle mansioni da quella “effettivamente imprenditoriale dell’Ente Porto che, quindi, deve ritenersi datore di lavoro di fatto dei soci lavoratori della compagnia”, o almeno “committente, visto che pagava il lavoro dei facchini mandati dalla compagnia a svolgere l’attività nel suo interesse e dallo stesso gestita nei suoi ambienti (magazzini, scali, banchine) o in quelli di proprietà dei suoi interlocutori diretti (navi, vagoni ecc.)”.

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